WARDRUNA

2023-02-22 17:52:45 By : Ms. Yoyo Xu

Report di Sara Sostini Foto di Benedetta Gaiani 

Musica arcana, eppure senza tempo, capace di fiorire attraverso i secoli e parlare con voce attuale di un legame indissolubile tra l’essere umano e la terra su cui cammina: crediamo sia questo il nucleo fondamentale che rende la proposta musicale dei Wardruna unica e così amata a prescindere dalla distanza geografica e, parzialmente, storica. Se infatti il collettivo norvegese veicola il proprio lavoro di ricerca archeologico-musicale – andando a scavare nelle tradizioni sonore, sia per contenuto, sia per strumentazione, nella storia custodita tra fiordi, ghiacciai e mare gelido – in maniera presochè inscindibile dalla propria terra natìa, e se chiaramente parte del proprio successo è dovuto alla fortunata serie di History Channel “Vikings” (alla cui colonna sonora ha contribuito sin dalle prime stagioni), è proprio per la sua ‘universalità’ di ritmi e temi che risulta apprezzabile da chiunque, anche se una buona parte del bacino d’ascolto pesca in profondità nel mondo della nostra musica preferita, forse per una fascinazione mai sopita verso le estreme, acuminate terre scandinave e perchè a dare origine a quest’avventura è stato, insieme a Einar Selvik (oramai rimasto unico mastermind del progetto), quel Gaahl cui molto si deve in termini di sviluppo della scena black metal. Una conferma di ciò è dovuta dal sold-out registrato dalle due date italiane, entrambe al Teatro Dal Verme di Milano, per la prima apparizione del gruppo nel nostro paese durante un tour europeo variamente rimandato durante gli scorsi tre anni, soprattutto a causa delle difficoltà legate alla pandemia; sicuramente lo slittamento, nell’ultima conferma, della data originale dal weekend al lunedì (e l’aggiunta di una seconda data il giorno prima, quindi di domenica) ha creato non poche difficoltà logistiche agli spettatori; eppure, nè il freddo nè la routine da primo giorno della settimana sembrano scoraggiare il pubblico, variegato per età e composizione, che affolla il teatro sin dall’apertura del foyer lunedì sera, con una discreta folla assiepata attorno al banchetto del merch (dai prezzi non proprio popolari, come sempre più spesso succede in periodi di crisi dell’intero settore come questo). Ad attenderci, quasi dure ore di suggestioni glaciali, racconti tramandati nelle anse dei secoli e ritmi in grado di lenire menti e cuori dalla contingenza della realtà; pur se con qualche appena percettibile sbavatura di esecuzione (comunque non in grado di inficiare l’effetto immersivo dell’intero concerto) queste aspettative sembrano state attese. 

Le luci si abbassano qualche minuto dopo le 21, e l’ovazione che accoglie l’entrata in scena dei WARDRUNA sarà solo la prima di molte attestazioni di affetto e stima tributate al gruppo nel corso della serata. L’allestimento del palco è davvero minimale, permettendo alla nostra attenzione di focalizzarsi sulla musica, sottolineata e arricchita nei momenti più carichi d’enfasi da un lavoro di luci davvero spettacolare, in grado di rendere trascurabili e superflue le sporadiche proiezioni video presenti qui e lì nella scaletta. Ed è proprio lei, la musica che viene intessuta dalle corde di moraharpa (antenato nordico del violino), dalle pelli tese dei tamburi, dai fiati baritonali, la vera protagonista della serata: dalle bianche piume di corvo di “Kvitravn”, il cui ritmo ondivago accompagna il volo del mito, al battito ligneo prima compassato e poi saltellante di “Solringen”, capace di svegliare i campi estivi, i sei musicisti – impegnati alternativamente nel canto, nelle percussioni, negli strumenti a fiato e a corda, tutti di foggia arcaica o naturale (come i Lur, lunghi strumenti a fiato), i bukkehorn (corni di capra forati) o la stessa moraharpa – sono al tempo stesso artefici e veicoli di un’impalcatura sonora suggestiva – basti pensare durante l’esecuzione di “Tyr” le vibrazioni baritonali hanno scosso l’intera sala del teatro – in grado di rifrangersi nelle armonie, in una gestualità quasi teatrale, sicuramente frutto delle esperienze live degli anni passati. In qualche modo però i concerti tenuti con sempre più frequenza, almeno prima della pandemia, non hanno contribuito ad alterare o arricchire di molto la struttura dell’esibizione, concentrata molto sulla sintonia tra quanto suonato e cantato, da un certo punto di vista quasi a scapito di un impatto visivo, a differenza ad esempio di esperienze come quella degli Heilung (pur trattandosi di un contesto differente per intenti e operato). Ma i Wardruna nascono in origine come progetto di musica e ricerca sugli intrecci di rune (bindrune per due/tre lettere o Fuþark, per composizioni più estese), mettendone in musica i significati stratificati, intimamente collegati alla mitologia più o meno tradizionale, quindi risultano anche dal vivo più contemplativi e ‘astratti’ rispetto ad altre esperienze; ed è innegabile come, sebbene l’ultimo “Kvitravn” abbia riscosso successi un po’ ovunque, i vari estratti dai primi tre lavori, totalmente focalizzati proprio sulle rune (e uniti infatti dal termine ‘Runaljod’, ovvero più o meno ‘suono delle rune’) abbiano tutt’altra carica emotiva: in particolar modo il trittico “Rotlaust tre fell”, “Fehu” e “Odal” ha contribuito a decine e decine di brividi e pelle d’oca per tutta la sala. Lindy Fay Hella sembra sempre di più una creatura silvana, dagli occhi persi in chissà quale panorama e i piedi scalzi che si muovono su ritmi tutti loro, arrivando in alcuni momenti a risaltare quasi per contrasto con la concentrazione ieratica e sacrale degli altri cinque, praticamente inalterata fino alla fine, ma l’attenzione è spesso e volentieri catalizzata dalla figura di Einar Selvik: il musicista, seppur non di statura imponente, ha il magnetismo trascinante degli aedi di epoche passate a rivestirne i contorni, ed il silenzio totale che avvolge il teatro durante l’esecuzione in solitaria di “Voluspá” ne è testimonianza. Il finale, affidato alla toccante “Helvegen” e al ponte di canti gettato tra il mondo dei vivi e i defunti, è accompagnato da tre ovazioni lunghissime (replica di quelle della sera precedente) che lasciano i Wardruna visibilmente scossi, commossi e imbarazzati di fronte ad una tale attestazione di calore; queste emozioni sono palpabili nelle parole di Einar, che per qualche momento smette i panni compìti da officiante e scambia qualche battuta con il pubblico (dimostrando un’ironica e pungente lucidità nel raccontare l’obiettivo ultimo della musica composta e prendendo le distanze da un certo ‘vichinghismo’ un tanto al chilo) prima di un ultimo encore, l’esecuzione in solitaria di “Ormagardskvedi” (secondo la leggenda, il canto di Ragnar Lothbrok morente nella fossa dei serpenti). Un’ulteriore strascico di applausi accompagna la fine del concerto, che siamo sicuri abbia lasciato un segno indelebile in molti spettatori e spettatrici. Crediamo che, nonostante l’indubbia comodità dei sedili del Dal Verme, un concerto dei Wardruna possa sprigionare la propria reale potenza in un ambiente naturale aperto (e speriamo di poterli rivedere presto in un contesto simile), ma anche stasera, per qualche ora, ghiacciai, saghe scaldiche, i fili perennemente tessuti dalle Norne e il respiro animista della natura incontrastata ci sono sembrati più vicini.

Setlist: Kvitravn Skugge Solringen Bjarkan Tyr Lyfjaberg Voluspá (Skaldic Version) UruR Isa Grá Rotlaust tre fell Fehu Odal Helvegen Ormagardskvedi

WARDRUNA (foto della data di domenica 22 gennaio):