Il reportage di Marco Grassano su Chanià si chiude con i gatti

2023-02-22 17:10:31 By : Ms. Elaine Yan

Sedicesima e ultima puntata del reportage di Marco Grassano “Ritorno a Chanià”.

In tutte le città e i paesini di Creta – e anche nelle rovine, nei monumenti e nei monasteri – ho sempre notato la presenza di un gran numero di gatti, che i cittadini (i monaci un po’ meno, come si è visto) nutrono e trattano bene. La stessa cosa l’avevo osservata a Malta. L’amica docente a riposo rileva essere questo un fenomeno “diffuso nel Mediterraneo (vedi Genova e la Costa Ligure)”. Bisognerebbe capirne il motivo…

Per il momento, come gesto di affetto verso le “nobili bestie”, mi limito a ricordare qui i micioni che ho incontrato a Chanià ma ai quali non ho avuto modo di fare cenno prima.

Il gatto mascherato bianco e nero (o magari sono due assai simili), dal grande naso rosa, che ho accarezzato di fronte alla Neòria, sia a terra, sull’asfalto, sia, in un altro momento, sul davanzale di una delle finestre.

L’altro “Mascherone”, a pelo lungo, coccolato sul piazzale grezzo e malridotto del Rosa Nera.

Lo “Zorro dal mantello bianco” del convento di Agìa Triàda e il suo vaporoso compagno “cuffiettone”.

La lanosa gatta tricolore placidamente insediata nell’ultimo tratto di via Canevaro, appena prima della piazza.

L’altra gattina, seduta davanti a una macchina in sosta nella parte orientale di Splantzia: bianca, con la coda tigrata e piccole sfumature grigie e rossicce sul capo.

La micia dal mantello fulvo e dalla parte anteriore (o piuttosto, inferiore) bianca, che si aggirava nei pressi della Libreria Mediterraneo, e l’altra, dorata, più giovane, che, a pochi metri da lei, sfregava il muso contro uno di quei fermagli avvitati al suolo per agganciarvi i teloni dei ristoranti.

I due gattoni – uno tigrato, con petto e gola bianchi; l’altro tutto bianco, con un collarino scarlatto dal quale si deduceva la sua domesticità – che si azzuffavano, emettendo alti miagolii, tra l’erba dell’area ruderale recintata, verso fine Canevaro.

Attorno a casa, è rimasto un gruppo di felidi, probabilmente gli stessi del 2019 – nel frattempo, cresciuti o invecchiati. Ma, quando mi avvicino per fotografarli, si allontanano in varie direzioni.

La prima mattina, scendo verso la piazza. Mi godo appieno “la luce bellissima del sole” cantata dalla poetessa Praxilla con le parole italiane di Quasimodo (κάλλιστον φάος ήελίοιο, kàlliston fàos helìoio, dice l’originale). Nello spazio verde di Odòs Kanevarou dove due anni fa si addensavano foglie di banano e pale di fichi d’India, sono adesso in corso scavi archeologici, per riportare alla luce antiche fondamenta. Una donna vi sta lavorando.

A differenza che da noi, qui sono in funzione i bagni pubblici – puliti, luminosi, ben arieggiati. Si trovano in due punti del centro storico: uno all’inizio della viuzza parallela al molo, dalla quale prende poi avvio la scalinata verso il Rosa Nera; l’altro nel primo vicoletto che si diparte, a sinistra, dalla Zampeliou, per andare a confluire, fiancheggiando una parete di pietra, nello slargo a lato del cortile (o chiostro) dell’ex Museo Archeologico.

Arrivando, di mattino, al piazzale del Rosa Nera, sento una squadra di muratori smartellare e canticchiare nell’ampio edificio subito a destra. Chissà cosa ne sortirà. Per esempio, la vicina casetta che, due anni or sono, avevamo trovato in flemmatica ristrutturazione, è divenuta succursale di un albergo.

L’accesso alla diga frangiflutti è chiuso, in corrispondenza del varco che evita il ristagno nella darsena. Inizialmente, penso sia a causa di qualche manutenzione in corso. Poi capisco che è per ragioni di sicurezza, per il rischio che qualche incauto venga travolto dalle terribili ondate del mare d’inverno. Mi siedo qui, al sole, e leggo Ritsos.

La barca che, di fronte alla Neòria, vendeva spugne e oggetti artigianali di conchiglie, di notte appare suggestivamente illuminata con lanterne ottenute da nicchi, buccini e valve. Proseguendo lungo il pontile, oltre il Teatro Theodorakis, dardeggiano – anch’essi evocativi – i fari subacquei blu di un grande motoscafo.

Scopro un minimarket di alimentari e prodotti per la casa ancor più vicino, al numero 8 della Chalidon. La vetrina – arcuata, in legno d’acero – è invitante. Devo comprare una nuova scorta di latte e biscotti. I generi che mi interessano li trovo sul fondo, dopo aver salito una piccola rampa di gradini. La giovane alla cassa, mora, è sorridente e gentile. Ci torno più volte, a prendermi bottigliette di fresco e piacevole succo di aloe vera. Poco oltre nella via, in una bottega che d’estate vende principalmente gelati, sono esposte piramidi di arance (frutto, qui, “a chilometri zero”) con cui si preparano spremute.

Girando nei vicoli, ci si stupisce di vedere la corrispondenza in consegna abbandonata sulla soglia delle case e dei negozi. Non si scorgono cassette per le lettere. Altra bizzarria del Servizio Postale indigeno. E pensare che Ermes, il messaggero degli dèi, è invenzione greca.

Regolarmente, sia di giorno che calato il buio, girano, coi loro gilet gialli, gli addetti alla nettezza urbana. Alcuni sostituiscono, nei numerosi cestini, i sacchetti neri dei rifiuti, depositando quelli rimossi sul carrellino o sul piccolo motocarro (elettrici). Altri spazzano con impegno i marciapiedi e le strade del centro, e persino le banchine. Fotografo uno di questi all’opera, mentre vado a prendere il pullman per l’aeroporto.

L’ultima immagine che capto dell’isola attraverso l’oblò dell’aereo – quando esso compie una virata a destra per poi infilarsi nella nuvolaglia – è la “spiaggia di Zorba”.

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